In Italia le persone sordocieche sono 189.000. Rappresentano lo 0,3% della popolazione, ma di loro e delle loro storie si parla ancora poco. Eppure, imparare a conoscere le persone e la loro condizione aumenterebbe la consapevolezza pubblica riguardo ai loro bisogni e ne faciliterebbe l'inclusione, che ad oggi è ancora insufficiente. Infatti più della metà delle persone sordocieche, il 57%, vive in condizione di completo isolamento, anche affettivo. C'è chi, per esempio, passa le giornate in solitudine perché non se la sente di uscire di casa: spesso mancano le infrastrutture adeguate o i servizi per il sostegno. Parlare delle persone con sordocecità è quindi un primo passo importante per iniziare un percorso di inclusione nella società.
La sordocecità è una condizione complessa che combina diversi gradi di cecità e di sordità. Può essere congenita, quindi presente fin dalla nascita, o acquisita, per esempio, dopo un grave incidente o un ictus. La perdita della vista e dell'udito può essere totale o parziale. Circa il 60% presenta poi altre forme di disabilità, come, per esempio, la disabilità cognitiva, la disabilità motoria o il disturbo dell'apprendimento e dello sviluppo del linguaggio. In questi casi si parla di persone con pluriminorazioni psicosensoriali. Questo rende quindi ulteriormente difficili la comunicazione, l'autonomia personale, l'apprendimento e le relazioni interpersonali.
Stare accanto alle persone sordocieche di qualsiasi età è importante, ma spesso anche difficile. Lo è per le famiglie o per le persone vicine, ma anche per gli operatori e le operatrici che educano, aiutano e sostengono. Per questo, ha spiegato a Freeda Nicoletta Marconi, psicologa e responsabile dei servizi riabilitativi per adulti e dei servizi territoriali della Lega del Filo d'Oro, Fondazione Onlus punto di riferimento per le persone sordocieche e pluriminorate, il ruolo degli educatori e delle educatrici è fondamentale. Con lei abbiamo parlato dei bisogni e dei desideri dei sordociechi, delle persone che li circondano e quanto dista ancora l'inclusione.
D: Quando hai deciso di fare questo lavoro? R: Ho iniziato come insegnante. Dopo le magistrali avevo seguito un corso di formazione per diventare educatrice presso la Lega del Filo d'Oro. Poi mi sono resa conto che insegnare ai bambini o ai ragazzi sordociechi era molto difficile e mi sono detta: "Probabilmente di insegnanti per i bambini normodotati ce ne sono tantissimi, perché non provare ad insegnare alle persone sordocieche, visto che me la sento?" E quindi ho preferito dare la precedenza a loro, mi sembrava di poter dare qualcosa in più.
Qual è l'obbiettivo del tuo lavoro e di quello dei tuoi colleghi e colleghe? L'obbiettivo numero uno è senz'altro la qualità della vita. Volge tutto a quello. Noi cerchiamo di passare dalla ricerca dei bisogni alla ricerca dei desideri. I bisogni vengono stabiliti sempre da fuori, mentre i desideri sono qualcosa di viscerale. Che cosa mi piacerebbe? Cosa mi fa stare bene? Cosa mi fa sentire parte di una realtà più grande? E questo rientra poi un po' nel concetto di inclusione: star bene significa star bene anche con gli altri.
Che cos'è per te l'inclusione? Per me significa esserci in un qualsiasi contesto sociale - come quello scolastico, lavorativo o sportivo - in un modo partecipato. Esserci quindi con una funzione attiva. Questo però significa anche avere quelle competenze e abilità che si costruiscono prima che avvenga l'inclusione. Se non aiuto, per esempio, un bambino a sviluppare competenze sociali, competenze di autonomia, di autodeterminazione, e anche competenze comunicative, l'inclusione non ci può essere e non si troverà mai bene in una classe.
Cosa ci manca per essere più inclusivi? Dobbiamo sensibilizzare il contesto che accoglie. L'inclusione presuppone una accoglienza da parte del contesto sociale, no? L'accoglienza è favorita dalla conoscenza. Come posso capire se, per esempio, io non so cosa significhi stare su una sedia a rotelle, perché non l'ho mai sperimentato e nessuno me lo ha mai fatto provare? Noi andavamo nelle scuole a far provare ai bambini le sedie a rotelle, così capivano, tra le altre cose, che non era il caso di spingere chi ci stava seduto sopra.
Le persone sordocieche si accorgono quando chi gli sta di fronte le tratta in modo diverso... ... sì, sai cos'è? È che la disabilità rischia di coprire tutto, anche la persona che c'è dietro. È talmente invadente che non ci si accorge che dietro c'è un uomo, una donna, una persona pensante, una persona con dei desideri, dei sogni o dei talenti. Anche quando i casi sono molto gravi, come di quelli di cui ci occupiamo noi. Più la disabilità è grave, più copre. E poi da fuori, si tende a mischiare l'intelligenza cognitiva con quella emotiva. Ma non sono mica la stessa cosa.
Si potrebbe dire che la conoscenza e l'empatia siano le chiavi per una vera inclusione delle persone con disabilità. Ci immaginiamo sempre le barriere per le persone disabili come delle barriere fisiche: mettiamo delle rampe, allarghiamo le porte, buttiamo giù un muro. Ed è utile per favorire l'inclusione, però non c'è soltanto quell'aspetto. C'è una barriera principalmente culturale, molto difficile da abbattere. Portare la disabilità dentro a diversi contesti per farla conoscere può quindi far sì che venga "normalizzata", qualcosa di avvicinabile. Non mi avvicino a qualcosa che non conosco o che mi fa paura, ma a qualcosa che conosco.
E in questo contesto di avvicinamento gli operatori e le operatrici che ruolo hanno? Hanno il ruolo di facilitatori e di mediatori. Un sordocieco, che parla il Malossi o la Lis Tattile (ndr: approfondimento qui) o che utilizza un altro dei sistemi comunicativi, necessita maggiormente una mediazione per la comunicazione. Per questo gli operatori contribuiscono fortemente all'inclusione.
Com'è per loro? Può essere un lavoro davvero frustrante. I risultati li vedi dopo tanto tempo e a volte sono minimi, nonostante tu ci abbia investito molte energie e molto tempo. Un operatore deve mantenere sempre un suo equilibrio fra l'obiettività e l'empatia. È un lavoro che devi fare al 50% con il cuore e al 50% con la testa, se lo fai solo con il cuore ti bruci. Ti bruci perché il burnout è dietro l'angolo. Se lo fai solo con la testa, non vai lontano. Non riusciresti a creare una relazione forte. Però non puoi neanche farti trascinare troppo dentro.
È difficile non perdere sé stessi... Guarda, ci sono gli operatori che lavorano tantissimo, quasi esagerano. Arrivano a fine mattinata dicendo di aver già fatto tutto. E poi io chiedo: "Quando ti sei preso il tempo per giocare o per empatizzare? Quando ti sei fermato un attimo?" Il problema è che empatizzare con la malattia e con la sofferenza è doloroso. A volte addirittura è quasi più facile lavorare con le persone che non ti dicono che stanno male o che non piangono... Il pianto è intollerabile per tutti perché è sofferenza. Ma non è che chi non piange, non soffre. Solo che se tu non piangi io mi sento "meglio".
All'inizio hai parlato di bisogni e desideri, quali sono i tuoi e quelli della Lega del Filo d'Oro? Innanzitutto la salute: abbiamo vissuto con molta apprensione l'emergenza sanitaria dovuta al covid perché abbiamo bambini e adulti anche molto gravi da un punto di vista di salute ed eravamo terrorizzati che il virus potesse entrare. La Lega del Filo d'Oro vuole estendere i servizi per aiutare quante più persone possibile mantenendo lo standard qualitativo che la contraddistingue. Io spero di poter continuare a fare questo lavoro con lo stesso entusiasmo, che ancora oggi mi sorprende e continua a spingermi, e spero anche di poterlo tramandare a chi verrà dopo di me.
Nicoletta Marconi lavora da trent'anni alla Lega del Filo d'Oro, che si chiama così perché è come un filo prezioso che unisce le persone sordocieche al mondo esterno, non lasciandole mai sole. Dal 1964 la Lega del Filo d'Oro è un punto di riferimento in Italia per l'assistenza, l'educazione, la riabilitazione, il recupero e la valorizzazione delle potenzialità residue e il sostegno alla ricerca della maggiore autonomia possibile delle persone sordocieche e pluriminorate psicosensoriali.